martedì 14 settembre 2010

RESET

Mi piacerebbe davvero tanto avere un tasto di reset, avere la possibilità di dimenticare tutto, vivere come se nulla sia mai successo.

Ovviamente, come molte altre cose, questo mi è negato.

Beh, cara mia, dovrò, finalmente, farmene una ragione. Forse hai ragione, non dovrei vederti più, mai più. Ogni volta è la stessa storia.

Ogni volta è la stessa maledetta storia.

Tuttavia, è sempre difficile. Sempre, ogni dannata cosa di questo mondo è difficile. Come posso... rinunciare a te? Al tuo sorriso, ai tuoi occhi, alla tua compagnia? No, non posso... vorrei, ma... non posso.

Posso solo scrivere qualche patetica riga.

domenica 29 agosto 2010

Sotto un cielo deprimente

Qui, lontano da ciò a cui vorrei essere vicino, sotto questo deprimente cielo cittadino, le stelle sembrano semplicemente buchi di spillo, da cui filtra la radiazione di un mondo ben più luminoso del mio. Un enorme, oppressivo e buio telo lo copre, e lo nega.

Che fare ancora, se non ricordare quando, lassù, con te, quella miriade di stelle somigliava invece ad un prato fiorito di vita, un mondo parallelo vicino, posto là per noi, per farcelo osservare e sognare.

Ma forse sognavo solo io. E questo dubbio, espressione del mio essere, si materializza nella oscura cappa, tetramente posta sulla luce assoluta, che può filtrare solamente attraverso i piccoli fori creati da un mio folle sogno, frammenti di desiderio e felicità scagliati contro il nemico assoluto, ma troppo deboli, capaci solo di scalfirlo un poco.

Realtà si chiama, la mia nemesi. L'unico vero nemico, l'unica sfida già persa in partenza. Estremamente labile, estremamente variabile. Si presenti essa come una lacera cappa o come un luminoso campo, la sua intima essenza non cambia: una catena, ancorata al nostro cervello, che morde il nostro cuore.

Di giorno non si nota, la realtà. Tutto è luminoso, tutto è chiaro e definito. Ma è la notte che il castello di carte crolla, che le nostre certezze diventano spaventate ombre, tenute in vita solo dall'ignobile luce di un lampione. Ecco perchè di notte dormiamo, perchè ne abbiamo paura. La notte fa pensare, il cervello allenta la sua catena, ci intravediamo come davvero siamo, intuiamo l'essenza del mondo. Ma la luce proveniente da due sgangherati fori non è abbastanza per mostrarci con chiarezza il disegno.

Non so perchè scrivo, non so cosa cerco nè so bene cosa ho provato ad esprimere...le parole sgorgano da sole, a volte: la voce del cuore, quando il morso della realtà leggermente si allenta. E' sempre la stessa, che tenta disperatamente di portare il suo messaggio. E' strozzata, monotona, disperata. Paranoia, alla luce del sole.

Ma, al buio, è un altro piccolo foro aperto, un'altra puntura sulla pelle del reale. Ecco perchè mi sento obbligato a scrivere, sebbene, conoscendone il motivo, mi vergogni quasi a farlo. Mi sento ripetitivo, mi sento sleale, e mi sento ossessivo.

Scusami, anche se non me ne faccio una colpa, perchè altrimenti non posso fare. Sono cresciuto e sono cambiato, ma la la mia essenza resta, e il mio bisogno perdura.

Guardo una stella. Una delle poche, in questo cielo cittadino.
La guardo e non capisco.

mercoledì 28 luglio 2010

Metafore di vita

Un lampo. E una sgradevole sensazione di nausea. Mi risveglio nel mio letto.

Sudato, sconvolto, assolutamente allucinato. Guardo la sveglia: 8.45. Il mio turno inizia alle nove.

Cazzo.

Mi getto giù dal letto, in preda al panico. La nausea è passata, lasciando spazio alla frenesia, tanto che per i primi 5 minuti corro solo per casa senza combinare nulla. Calma. Sono sveglio. Sono in ritardo. Calma.

Getto una fetta nel tostapane, prendo un succo di frutta, sventro il mio armadio dalle sue interiora di cotone. Questi jeans? Ok, ok, non ho tempo, prendo questo. Allungo il braccio, catturo la camicia, tento freneticamente di annodare la cravatta.
Impresa disperata. Il nodo è una cosa orrenda, ma non importa... le scarpe! Dove sono le mie scarpe?

Mentre getto furiose occhiate in ogni dove, uno sgradevole odore di bruciato mi giunge dalla cucina. Il pane è andato.

Ecco le scarpe. Erano qui, che scemo. Ma senza calzini non servono a granchè. Vabbè, dopo.
Colazione, presto. Niente pane, si salva il caffè. Almeno quello, ne ho bisogno.

In bagno, di corsa. Nel percorrere il corridoio urto dolorosamente un mobile con il mignolo del piede. Ho bisogno di un minuto, datemi un cazzo di minuto.

Dolore.

Ok, ok, ci sono. Bagno. Veloce lavata ai denti, devo radermi. Lamette ,lamette... ecco, fantastico, mi sono tagliato. Merda, ho sporcato anche la camicia. Mi devo cambiare. No vabè, se metto così la cravatta non si vede... ottimo, non ho tempo.

Trovo le chiavi al primo colpo. Grazie.
Esco di casa, chiudo rapidamente.. la valigetta! Riapri, prendi, richiudi, via di corsa.


Tutto ciò che avrei potuto fare bene, con calma, se mi fossi alzato prima.. tutto quanto sarebbe andato meglio. Ma se ti svegli tardi devi riuscire comunque, in qualche modo. Probabilmente ci riuscirai male. Sperò avrò il resto della giornata per recuperare.

lunedì 26 luglio 2010

Imbarazzanti situazioni (con l'aggettivo prima del soggetto sembra più colto, vero?)

Scrivere di imbarazzanti situazioni è imbarazzante a sua volta, anche perchè chissà chi legge. Magari nessuno.

Un braccio impunemente sulla sua spalla (che cazzo significava?? Che scemo che sono), uno sguardo che doveva sembrare sicuro, solo un po' venato dal timore magari. Una voce similsimpatica, non rotta, ben udibile, ma forse, come spesso mi capita, un po' troppo frettolosa. Una richiesta ingenua, da bambino quale sono. Usciamo qualche volta, dai. Così, ci conosciamo un po' di più.

Ma la perla sono stati i suoi occhi. E' stato bruttissimo, per un istante: non erano schifati, nè arrabbiati, forse un po' sorpresi. Ma erano allucinati. Assolutamente increduli.

"No, davvero, proprio no"

Proprio no.

In effetti, dopo quello stomachevole istante, dato, come detto, più dai suoi occhi che dal rifiuto in sè, non mi sembrava di essere troppo incazzato o deluso. C'ho provato, vabbè. Un peccato, ma non ci perderò la testa. E lo penso anche ora. D'altronde mi era stato accennato già prima da miei consulenti.

Non così ieri sera, mentra tornavo a casa.

Un po' brillo, vabbè, ma questo è normale, mi sorprendo quasi di più quando sono assolutamente sobrio. Ma ero nero di rabbia. Rabbia per me stesso ma soprattutto per il mondo (che frase di merda. Ma non vuole essere uno stupido atto di ribellione di un adolescente represso. Ero davvero arrabbiato, ma non so bene come esprimerlo solo a parole. Non solo lo odiavo, questo mondo, ma lo detestavo. Detestavo gli alberi, i pali, i cassonetti, le macchine che passavano, le case di cemento, i parchetti deprimenti. Non tanto il concetto di mondo, ma proprio tutti i piccoli elementi che lo compongono. Quello che vedevo, non quello che immaginavo come "mondo")

Vabbè, chiudiamo 'sta digressione, andiamo avanti.

Cantando con voce persa e incostante canzoni dalle sonorità violente (me lo sono permesso, non c'era in giro nessuno), camminando spedito, strappavo rami, foglie, tiravo qualche calcio a ciò che trovavo in giro.

Diversi metri dopo, mi trovai davanti ad una quercia. Anche in quel momento, arrabbiato, strappai delle foglie. Ma mi pianse il cuore.

Non so bene spiegarlo, ma la quercia non è un albero qualsiasi, è un albero importante. Un albero antico, ecco. Ora, non dico che a Brescia crescano quelle quercie secolari della madonna, ma è una pianta che rispetto, che mi incute timore reverenziale, che instilla in me sensazioni di epicità e antichità. Mi sono pentito subito del mio gesto, istantaneamente. Ho toccato il tronco e ho chiesto scusa. Non so perchè.

A casa ci ho riflettuto un po', prima di andare a letto. Ho anche provato a piangere, e la tristezza c'era, ma le lacrime no. Niente lacrime. Per tutta la sera ho sentito in me un vuoto, la mancanza di qualcosa, di una parte che mi permettesse di essere completo. Per tutta la sera, tranne quando ho toccato quella quercia. Lì ero solo io, credo. Magari un gesto ed una sensazione provocati dall'alcol, ma io non credo a queste cose. A meno di grandiosi disfacimenti (e non era questo il caso) l'alcol non fa che portare alla luce quello che siamo. Amplificandolo magari, rendendolo teatrale e molto più comico e idiota di quanto non sia, ma l'effetto è questo.

Quando si è da soli, poi, si può essere certi che non lo si sta facendo per apparire, o influenzati dalla presenza di altri. Semplicemente non si riesce a contenere i propri pensieri. A volte è un bene.

Pensandoci adesso, tutto questo mi sembra stupido. Mi sembra stupido chiedere così, spudoratamente, ingenuamente, ad una ragazza (che tra l'altro conoscevo da tempo) di uscire, mi sembra stupido tirare calci ai pali o strappare rami, mi sembra stupido chiedere scusa ad una quercia. Ma non esageratamente. Solo un po'.

Un po' stupido. Tutto qui.

domenica 4 luglio 2010

Lacrime di consolazione

Parole, sussurri. Un tentativo di conforto, al fianco di un'amica che piange.

Tento di consolarla, escono frasi sentite, altre banali... ma tutte con un atroce dubbio... per chi lo sto facendo?

Forse è chiaro.. io sussurro a me stesso. Indago, studio, tento di interferire e prestare aiuto nella vita altrui, perchè voglio osservare questa vita.

Così piena, così.. vita.
Ma chi osserva non prende parte al gioco, ed eccomi qui, alla ricerca quasi spasmodica di una vita, di dei pilastri, di delle certezze, di qualcosa che mi faccia almeno pensare di essere al centro di qualcosa.

No, io sussurro, aiuto, ma nel frattempo invidio, invidio tutto, nel profondo. Invidio le relazioni, invidio le abitudini, invidio persino il dolore, concentrato in ogni lacrima. Mai ho pianto per qualcosa che mi sia accaduto. L'ho fatto per l'opposto, ossia per qualcosa che NON mi è capitato, per un sogno interrotto dal risveglio, per una chimera sfuggente. Una volta. Una sola.

Amandola e odiandola, compatendola e invidiandola, la abbraccio, e sussurro.

E mi sento parlare, analizzo il mio tetro tono (sembravo la bambina di The Ring, mi sarà poi fatto notare), provo quasi ad inventare, ad autoingannarmi: io so qualcosa della vita, ho una qualche esperienza.. ma non è così. Che cosa posso.. dire, io?

Io non so nulla. Come posso consolare, come posso CAPIRE?

Abbraccio quegli spasmi, quel tremore, quelle lacrime e quella voce stentata, quasi disperata, spezzata. E la avvolgo, con la mia, profonda, amichevole, utile... ed irrimediabilmente vuota.

Vuota, da ogni esperienza, da ogni conoscenza. Faccio scena. Sono sempre stato bravo a farlo. Perchè io non posso... perchè non riesco.. perchè non voglio?

Mi dispiace. Sempre per far scena parlavo prima, rievocando passati infelici e problemi sentimentali, scatenando, inconsapevolmente, anche altrui dolori.

Ed ecco, la abbraccio, per non so quanto. La consolo, tento di farlo. Ma in realtà mi unisco al suo pianto.
Assieme, piangiamo.

mercoledì 23 giugno 2010

Dal fondo della buca

La sabbia mi sfugge tra le mani, scivolo. Giù.
E’ tutto il giorno che tento di arrampicarmi su per questo crinale sabbioso. E forse è più di un giorno.. non ricordo bene, ma mi pare che anche ieri lo stessi facendo.. e l’altro ieri?
Non ricordo.. curioso. Beh, mi verrà in mente. Ora devo uscire da qui, devo tornare..
Eh, ancora più curioso. Non ricordo nemmeno questo. A chi dovrei tornare? Dove? Possibile che non me lo ricordi? Che non abbia radici? Eppure qualcosa mi spinge a risalire questo pendio.. Che io non abbia passato?
E nemmeno futuro, a quanto pare, se va vanti così. Non riesco proprio a salire, maledizione. Ma come ci sono finito qui dentro? Ricordo vagamente, forse per il trauma qualcosa mi è rimasto in mente…
Stavo camminando. Era bello tutt’intorno, mi pare. Camminavo come trasognato, senza badare a quello che c’era intorno, perché in realtà stavo osservando il tutto. Camminavo, e c’erano altri con me. Anche loro erano persi, sognanti.
E poi questo buco. Abbastanza grande in verità. Più una conca che un buco. Scavata nella sabbia, le pareti non si riescono a scalare… In cima intravedo le fronde di qualche albero.. ma nemmeno una radice spunta dalla sabbia.
Strani, questi alberi senza radici. Come me. O magari sono semplicemente io che non le vedo, esattamente come non ricordo il mio passato.
Che un uomo senza passato, esattamente come un albero senza radici, sia destinato ad appassire lentamente? Eppure si appassisce lo stesso, pare. Tutti muoiono, radici o no. Forse serve solo a ritardare le cose.
Ma qui, in questa buca, dove ogni giorno è uguale al precedente (tanto da non riuscire a distinguere il passato dal futuro), forse avere radici non serve. Forse le radici sarebbero solo un impedimento. Come fare a fuggire se si è ancorati a terra in quel modo?
E’ così surreale stare qui. E’ un luogo senza senso. Né passato né futuro, né entrata né uscita, né inizio né fine.
Stava pensando in questo modo, il piccolo scarabeo, quando la terra tremò. Si voltò, e di colpo capì tutto, lui che non aveva mai potuto capire niente: non aveva memoria perché non avrebbe mai potuto fare qualcosa di tanto degno da dover essere ricordato. Non aveva futuro perché l’universo non aveva voglia né tempo per creare un domani a lui, che non valeva nulla.

Tutto questo capì il piccolo scarabeo, mentre impotente e rassegnato assisteva, calmo, all’avanzata del formicaleone.

martedì 15 giugno 2010

Parole al vento

Oh abete,
fiero chierico di un millenario ordine,
tu che nell’aria ti stendi fiero
che fra le tue fronde intrappoli il vento
e la speranza,
ascoltami!
A te mi confesso:
Ora io, qui, non sono niente.
E il vento soffia più forte.
Addio abete, già tu non sei più albero,
ma solo ricordo
e i tuoi aghi non più foglie
ma spilli, nella mia anima.
Ah, quanto potrei essere felice…