mercoledì 28 luglio 2010

Metafore di vita

Un lampo. E una sgradevole sensazione di nausea. Mi risveglio nel mio letto.

Sudato, sconvolto, assolutamente allucinato. Guardo la sveglia: 8.45. Il mio turno inizia alle nove.

Cazzo.

Mi getto giù dal letto, in preda al panico. La nausea è passata, lasciando spazio alla frenesia, tanto che per i primi 5 minuti corro solo per casa senza combinare nulla. Calma. Sono sveglio. Sono in ritardo. Calma.

Getto una fetta nel tostapane, prendo un succo di frutta, sventro il mio armadio dalle sue interiora di cotone. Questi jeans? Ok, ok, non ho tempo, prendo questo. Allungo il braccio, catturo la camicia, tento freneticamente di annodare la cravatta.
Impresa disperata. Il nodo è una cosa orrenda, ma non importa... le scarpe! Dove sono le mie scarpe?

Mentre getto furiose occhiate in ogni dove, uno sgradevole odore di bruciato mi giunge dalla cucina. Il pane è andato.

Ecco le scarpe. Erano qui, che scemo. Ma senza calzini non servono a granchè. Vabbè, dopo.
Colazione, presto. Niente pane, si salva il caffè. Almeno quello, ne ho bisogno.

In bagno, di corsa. Nel percorrere il corridoio urto dolorosamente un mobile con il mignolo del piede. Ho bisogno di un minuto, datemi un cazzo di minuto.

Dolore.

Ok, ok, ci sono. Bagno. Veloce lavata ai denti, devo radermi. Lamette ,lamette... ecco, fantastico, mi sono tagliato. Merda, ho sporcato anche la camicia. Mi devo cambiare. No vabè, se metto così la cravatta non si vede... ottimo, non ho tempo.

Trovo le chiavi al primo colpo. Grazie.
Esco di casa, chiudo rapidamente.. la valigetta! Riapri, prendi, richiudi, via di corsa.


Tutto ciò che avrei potuto fare bene, con calma, se mi fossi alzato prima.. tutto quanto sarebbe andato meglio. Ma se ti svegli tardi devi riuscire comunque, in qualche modo. Probabilmente ci riuscirai male. Sperò avrò il resto della giornata per recuperare.

lunedì 26 luglio 2010

Imbarazzanti situazioni (con l'aggettivo prima del soggetto sembra più colto, vero?)

Scrivere di imbarazzanti situazioni è imbarazzante a sua volta, anche perchè chissà chi legge. Magari nessuno.

Un braccio impunemente sulla sua spalla (che cazzo significava?? Che scemo che sono), uno sguardo che doveva sembrare sicuro, solo un po' venato dal timore magari. Una voce similsimpatica, non rotta, ben udibile, ma forse, come spesso mi capita, un po' troppo frettolosa. Una richiesta ingenua, da bambino quale sono. Usciamo qualche volta, dai. Così, ci conosciamo un po' di più.

Ma la perla sono stati i suoi occhi. E' stato bruttissimo, per un istante: non erano schifati, nè arrabbiati, forse un po' sorpresi. Ma erano allucinati. Assolutamente increduli.

"No, davvero, proprio no"

Proprio no.

In effetti, dopo quello stomachevole istante, dato, come detto, più dai suoi occhi che dal rifiuto in sè, non mi sembrava di essere troppo incazzato o deluso. C'ho provato, vabbè. Un peccato, ma non ci perderò la testa. E lo penso anche ora. D'altronde mi era stato accennato già prima da miei consulenti.

Non così ieri sera, mentra tornavo a casa.

Un po' brillo, vabbè, ma questo è normale, mi sorprendo quasi di più quando sono assolutamente sobrio. Ma ero nero di rabbia. Rabbia per me stesso ma soprattutto per il mondo (che frase di merda. Ma non vuole essere uno stupido atto di ribellione di un adolescente represso. Ero davvero arrabbiato, ma non so bene come esprimerlo solo a parole. Non solo lo odiavo, questo mondo, ma lo detestavo. Detestavo gli alberi, i pali, i cassonetti, le macchine che passavano, le case di cemento, i parchetti deprimenti. Non tanto il concetto di mondo, ma proprio tutti i piccoli elementi che lo compongono. Quello che vedevo, non quello che immaginavo come "mondo")

Vabbè, chiudiamo 'sta digressione, andiamo avanti.

Cantando con voce persa e incostante canzoni dalle sonorità violente (me lo sono permesso, non c'era in giro nessuno), camminando spedito, strappavo rami, foglie, tiravo qualche calcio a ciò che trovavo in giro.

Diversi metri dopo, mi trovai davanti ad una quercia. Anche in quel momento, arrabbiato, strappai delle foglie. Ma mi pianse il cuore.

Non so bene spiegarlo, ma la quercia non è un albero qualsiasi, è un albero importante. Un albero antico, ecco. Ora, non dico che a Brescia crescano quelle quercie secolari della madonna, ma è una pianta che rispetto, che mi incute timore reverenziale, che instilla in me sensazioni di epicità e antichità. Mi sono pentito subito del mio gesto, istantaneamente. Ho toccato il tronco e ho chiesto scusa. Non so perchè.

A casa ci ho riflettuto un po', prima di andare a letto. Ho anche provato a piangere, e la tristezza c'era, ma le lacrime no. Niente lacrime. Per tutta la sera ho sentito in me un vuoto, la mancanza di qualcosa, di una parte che mi permettesse di essere completo. Per tutta la sera, tranne quando ho toccato quella quercia. Lì ero solo io, credo. Magari un gesto ed una sensazione provocati dall'alcol, ma io non credo a queste cose. A meno di grandiosi disfacimenti (e non era questo il caso) l'alcol non fa che portare alla luce quello che siamo. Amplificandolo magari, rendendolo teatrale e molto più comico e idiota di quanto non sia, ma l'effetto è questo.

Quando si è da soli, poi, si può essere certi che non lo si sta facendo per apparire, o influenzati dalla presenza di altri. Semplicemente non si riesce a contenere i propri pensieri. A volte è un bene.

Pensandoci adesso, tutto questo mi sembra stupido. Mi sembra stupido chiedere così, spudoratamente, ingenuamente, ad una ragazza (che tra l'altro conoscevo da tempo) di uscire, mi sembra stupido tirare calci ai pali o strappare rami, mi sembra stupido chiedere scusa ad una quercia. Ma non esageratamente. Solo un po'.

Un po' stupido. Tutto qui.

domenica 4 luglio 2010

Lacrime di consolazione

Parole, sussurri. Un tentativo di conforto, al fianco di un'amica che piange.

Tento di consolarla, escono frasi sentite, altre banali... ma tutte con un atroce dubbio... per chi lo sto facendo?

Forse è chiaro.. io sussurro a me stesso. Indago, studio, tento di interferire e prestare aiuto nella vita altrui, perchè voglio osservare questa vita.

Così piena, così.. vita.
Ma chi osserva non prende parte al gioco, ed eccomi qui, alla ricerca quasi spasmodica di una vita, di dei pilastri, di delle certezze, di qualcosa che mi faccia almeno pensare di essere al centro di qualcosa.

No, io sussurro, aiuto, ma nel frattempo invidio, invidio tutto, nel profondo. Invidio le relazioni, invidio le abitudini, invidio persino il dolore, concentrato in ogni lacrima. Mai ho pianto per qualcosa che mi sia accaduto. L'ho fatto per l'opposto, ossia per qualcosa che NON mi è capitato, per un sogno interrotto dal risveglio, per una chimera sfuggente. Una volta. Una sola.

Amandola e odiandola, compatendola e invidiandola, la abbraccio, e sussurro.

E mi sento parlare, analizzo il mio tetro tono (sembravo la bambina di The Ring, mi sarà poi fatto notare), provo quasi ad inventare, ad autoingannarmi: io so qualcosa della vita, ho una qualche esperienza.. ma non è così. Che cosa posso.. dire, io?

Io non so nulla. Come posso consolare, come posso CAPIRE?

Abbraccio quegli spasmi, quel tremore, quelle lacrime e quella voce stentata, quasi disperata, spezzata. E la avvolgo, con la mia, profonda, amichevole, utile... ed irrimediabilmente vuota.

Vuota, da ogni esperienza, da ogni conoscenza. Faccio scena. Sono sempre stato bravo a farlo. Perchè io non posso... perchè non riesco.. perchè non voglio?

Mi dispiace. Sempre per far scena parlavo prima, rievocando passati infelici e problemi sentimentali, scatenando, inconsapevolmente, anche altrui dolori.

Ed ecco, la abbraccio, per non so quanto. La consolo, tento di farlo. Ma in realtà mi unisco al suo pianto.
Assieme, piangiamo.